Le parole nascondono molte insidie. Quando sono eccessive tracimano dalle labbra, esondano in mille rivoli di proposizioni e in flussi verbali incontenibili che annegano il povero interlocutore, ormai privo di udito (e di salvagente).
Se sono esibite con misura ed economia sono apprezzabili ma, quando si ripetono pigramente, giorno dopo giorno, sempre uguali e senza guizzi, appaiono vuote e fastidiose.
Le parole non dette feriscono come quelle crudeli, quelle politicamente corrette, risultano spesso ipocrite e quelle incensatorie, melense. Paradossalmente, le parole che si possono proferire con più tranquillità, sono quelle sbagliate (e, secondo me, sono anche quelle più interessanti).
Da bambino, per anni, ho chiamato il regolatore del traffico a tre colori: “femaforo” (proprio come lo definisce ancora adesso Jovanotti) e i rettili striscianti: “sarpenti” (con la a). Inoltre non sono mai riuscito a pronunciare in modo corretto il nome del piccolo stato europeo Liechtenstein (tanto a calcio con l’Italia, perde sempre!). Mia nonna Ines, gran consumatrice di actinidie, non poteva esimersi da definirle orgogliosamente “ciniglie” (come il filato del suo copriletto matrimoniale, ma al plurale) e la coetanea grand-mère del mio amico Enrico, in tv, non perdeva mai una puntata di “Omnibus” (noto ai più come Beautiful).
Una mia compagna delle superiori, durante l’ora di religione si era manifestata apertamente contraria ai rapporti “ultramatrimoniali”, definizione che ha scatenato, per anni, la fantasia di noi brufolosi adolescenti sul suo reale significato (e penso abbia solleticato anche l’attempata curiosità del canonico che si occupava, in orario scolastico, della nostra povera anima).
Un bidello della scuola in cui lavoro, ormai passato a miglior vita, dopo aver effettuato la terrificante auto-estrazione di un canino con un paio di tenaglie arrugginite, ha voluto tranquillizzarmi, assicurandomi che una volta tornato a casa, si sarebbe risciacquato la bocca con il collutorio “una tantum” (solo per una volta? Mah?).
Quando avevo circa dieci anni, al termine della funzione domenicale, celebrata dal direttore dell’oratorio salesiano, mi piaceva affiancare un dolcissimo anziano per ascoltarlo rispondere alla formula di congedo: “la Messa è finita, andate in pace”, con l’involontariamente divertente: “Andiamo, grazie a Dio!” (uno strafalcione che sottolineava, magari inconsciamente, gli interminabili sermoni dell’officiante).
Una mia collega mi ha raccontato che sua madre usava ironicamente e, con frequenza, la congiunzione “omunque” scippata ad una amica (che probabilmente aveva perso la “c” di comunque da bambina, come io avevo acquisito la “f” di femaforo).
Anche le parole appropriate, pronunciate in un contesto sbagliato possono risultare divertenti. Quando un mio amico partenopeo ha accompagnato per la prima volta il figlio, nato e vissuto in Piemonte, a Napoli, il “citu”, dopo aver sabaudamente ordinato alla cassa del caffé Gambrinus un croissant, ha istantaneamente sentito trasmettere la sua ordinazione al barista con un sagace: “Un cornetto per il francese!”.
Le parole pronunciate “fuori tempo massimo” possiedono un umorismo amaramente lieve. L’anziana segretaria di mio nonno, vedova e senza figli, indossava perfettamente il soprannome “madamin” sintesi di una formalità d’altri tempi, congiunta ad un’estrema gentilezza e un guardaroba un po’ antiquato. Durante il viaggio in auto, alla volta della piccola pensione di montagna che l’avrebbe accolta per dieci giorni, scorgendo fuori del finestrino alcune mucche pezzate intente a brucare l’erba, si era rivolta a mio padre dicendo: “Guarda Piero, quanti “mo-mo!” (birignao accettabile se pronunciato da una bambina di cinque anni ma, dolcemente malinconico in bocca ad un ottuagenaria).
I modi di dire spesi con troppa frequenza e leggerezza, spesso perdono il loro significato. La definizione “è un bella persona”, attribuita pressoché a chiunque, non mi convince, come mi infastidisce ascoltare costantemente liberi professionisti che, nell’ambito della loro attività (sia essa la ristorazione, la sartoria artigianale o lo spurgo fogne) “portano avanti un certo tipo di discorso”.
Forse l’espressione più inutile è “per adesso grazie”. Un riconoscimento verbale che lascia intendere la volontà di ricambiare un favore ricevuto, con gentili omaggi di ceste di frutta tropicale, casse di champagne Mumm, mazzi di fiori, conferimenti di onorificenze al merito, erezioni di monumenti equestri, intestazioni di vie e intitolazioni di borse di studio (e, invece, significa unicamente “grazie”, parola sempre apprezzabile, che viene del tutto vanificata dall’inutile, pomposa e fuorviante appendice “per adesso”).
Alcuni anni fa, proprio su questo settimanale, è apparso un annuncio matrimoniale in cui un uomo di mezz’età, di bella presenza, con buona posizione economica ed intenzioni serie, manifestava il desiderio di formare una famiglia con una compagna che doveva possedere un singolo, semplice requisito: “umana”. Probabilmente il distinto celibe non era un’amante della fantascienza, ma spero, con tutto il cuore, che sia riuscito a trovare la sua anima gemella.