Fermo immagine di Alberto Abbà

Sopravvivere a un figlio

La sveglia suona presto perché il lavoro nei campi lo richiede. L’abitudine di buttarsi giù dal letto, direzione bagno. Acqua fredda in faccia, barba.
Caffè bollente, fette di pane duro.
I vestiti del lavoro sono quelli di vecchie tuniche resistenti. Al mattino l’aria è ancora fresca e poi sul trattore non c’è riparo. Controllare i frutteti, valutare il giusto momento per una potatura o un rinforzino. Il turno dell’acqua, fra preoccupazioni di grandine, alluvioni e siccità.
Poi un giro dalle bestie. Ognuna richiede cibo e pulizia e dona latte e uova. Carne, poi.
Un orto da curare, tenerlo giusto di umidità e senza erbacce, fra la semina con sguardo luna e i raccolti dei primi frutti. Insalata sempre. La stessa in tavola prima delle verdure estive. Pasta con il sugo e un bicchiere di vino rosso.
Una sosta in poltrona, a digerire con gli occhi chiusi.
Poi la manutenzione dei macchinari, veri e propri investimenti, che non si limitano a zappa e innaffiatoio per chi con la terra vive. Il cambio d’abito per un giro in paese, l’appuntamento in banca, due conti dal commercialista, di corsa nel negozio di sementi e poi a recuperare quel pezzo del motore che creava problemi. Il montaggio ancora prima della cena, anche questa un poco silenziosa.
Le giornate lunghe invitano a uscire e sedersi su quel dondolo. Il sole che tramonta è un arancione che orla i profili scuri dei monti. Gli occhi di un padre in quel quadro fissano non si sa cosa.
Riempire un tempo non basta, il pensiero di quella giovane figlia che non c’è più ritorna a bussare appena si lascia la presa.
In realtà non molla mai, come un mal di denti moltiplicato per mille pinzato sul cuore.
Non c’è nome per un genitore senza un figlio e non c’è unità di misura per quel dolore, che neanche in un bicchiere o in un quadro riesce ad annegare.
albiabba@libero.it