Fermo immagine di Alberto Abbà

A cena con Primo

Una lunga giornata storta che richiede una coccola. La trattoria dal nome piemontese (Bergé) sul tragitto verso casa è un invito ad entrare. Giusto due piatti, ben cucinati e ad un prezzo onesto, in questi tempi di furti legalizzati in mascherate finte piole. Un menù scritto a mano. Un quartino di rosso della casa e un respiro che si distende. Nel tavolo davanti al mio, in fronte alla vetrata un flash! Se ne sta seduto di profilo un signore uguale a Primo Levi. Barba bianca, capelli all’indietro, occhiali con una grande montatura. Il camiciotto infilato dentro ai pantaloni. Le scarpe marroni. Riuscissi ad invitarlo al mio tavolo ordinerei altro vino e gli direi grazie. Per quelle parole eterne custodite nei libri e per il suo “Ferro” in cui quella “carne dell’orso” resta uno dei tributi più belli mai scritti sull’amore per montagna, condivisione e avventura. Dopo il primo bicchiere gli chiederei di Faussone e di quel privilegio nello svolgere un lavoro che si ama. Vorrei farmi raccontare l’amicizia con Mario e con Nuto e tenere in casa una delle sue opere in filo di rame.
Non gli chiederei nulla del suo libro più famoso e nemmeno del suo finale in terra, solo chi vive certi inferni può capirli. E intanto là davanti a me quel signore ordina il mio stesso piatto. Si versa il vino, si infila il tavagliolo di carta nel colletto, come i bimbi o come chi sa di sporcarsi. Mastica piano, recuperando con cura il boccone dalla forchetta. Mi alzo, vorrei raggiungerlo, ma non lo faccio. Le parole mi restano sul palato insieme al gusto del caffè, mentre pago il conto alla cassa. Da fuori, nel riflesso del vetro, vedo la sua “scarpetta” che naviga in un piatto ormai pulito e il suo sguardo che incrocia il mio. Ma lui ha negli occhi il sole del tramonto e forse quel sorriso accennato è solo la smorfia di quell’ultimo raggio.
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