Il portico di Luca Margaria

Di che cosa abbiamo paura?

Non so se la sensazione che ho io in questi ultimi tempi è la stessa che avete anche voi, lettori di questo giornale. Sembra che ultimamente fatichiamo a sopportarci tutti e a tutti i livelli. Pare percepire e addirittura respirare rabbia e violenza in ogni immagine e in ogni relazione che compongono la nostra quotidianità. 
Non sto parlando delle classiche relazioni che sono considerate difficili da vivere perché regolate da rapporti gerarchici ed economici, come quelle con il capo ufficio, con il capo lavoro, con chi ci comanda, qualsiasi forma esso abbia. Sembra che proprio tutte le relazioni siano diventate difficili, da quella con noi stessi, con la nostra stessa vita. 
Qualche anno fa aveva fatto scalpore quell’uomo che per un semplice parcheggio aveva malmenato l’uomo che a suo dire gli aveva “rubato” il posto. Oppure quello che, in un incrocio, per una precedenza negata aveva prima inseguito e poi preso a botte colui che era “reo” di un così grave oltraggio. 
Questi atteggiamenti sono arrivati anche all’interno del mondo dello sport che sembrava essere luogo di distensione e di relax per eccellenza. Non mi riferisco qui al fatto della violenza negli stadi o legata al calcio, ma al fatto che tante volte scatti di vera e propria ira e violenza tra atleti o tra supporter, vengono interpretati come semplici manifestazioni di agonismo. E questo anche in ambito amatoriale e sostanzialmente in tutti gli sport.
Questo atteggiamento non ha risparmiato nemmeno l’ambito della montagna, luogo per antonomasia di relax e tradizionalmente di sentimenti altruistici. Non è raro vedere persone che in punti obbligati di alcune ascensioni, di fronte ad escursionisti più lenti, mostrano segni di evidente insofferenza all’idea semplicemente di dover attendere e quindi di non rispettare la tabella di marcia. L’ansia da prestazione fa sì che si trovino soluzioni diverse dal semplice aspettare il proprio turno e si arriva anche a mettere a repentaglio la propria e altrui incolumità pur di mantenere il proprio tempo o addirittura di batterlo. 
C’è chi, addirittura, pur di non avere degli “intoppi” e di fare l’exploit, sceglie di cimentarsi in ascensioni in momenti dell’anno e della giornata che il buon senso inviterebbe a evitare.
Sembra che non ci sia ambito in cui il risentimento e l’insofferenza nei confronti degli altri non sia entrata e abbia avvelenato tutto. Si potrebbe dire che ognuno di noi, nel proprio ambito, abbia i nervi a fiori di pelle. La crescente violenza nei confronti dei cosiddetti immigrati è semplicemente il luogo dove maggiormente e con sempre più sfacciata evidenza si rende manifesto tutto questo. E il perché è legato non tanto alla loro appartenenza ma al fatto che, essendo i nuovi poveri, non possono difendersi. Essi diventano il capro espiatorio di una violenza e di un dolore molto più profondi e che ha origine altrove.
Ma allora tutto questo non è forse sintomo di una grande sofferenza e di una grande paura che il più delle volte non riusciamo a riconoscere e nominare? 
Ma allora che cos’è che ci crea una così grande sofferenza? Di che cosa abbiamo paura?