“Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri”, così recitava Giorgio Gaber all’inizio degli anni ‘90 nel suo spettacolo “Teatro canzone”. Il riferimento era agli anni sessanta e settanta e non era legato al solo essere o sentirsi comunista. La spinta al sociale, al rompere la chiusura del semplice individualismo non era solamente prerogativa del comunismo. Anzi, sappiamo bene quanto quell’ideologia abbia scardinato in tanti popoli, do-ve ha cercato di radicarsi, proprio il senso della comunità che pur cercava di costruire.
Comunque è indubbio che il sessantotto, tra le sue contraddizioni, portasse con sé proprio il tentativo di sentire la propria vita in continuo contatto e collegamento con gli altri.
In questo senso l’adagio “tutto è politica”, in voga in quel periodo, può sintetizzare e aiutare a comprendere la convinzione che non ci potesse essere un ambito o aspetto della vita totalmente privato nel senso che non avesse un rimando, un riscontro e anche delle conseguenze sulla vita degli altri. L’aspetto sociale e politico erano sentiti come la radice a partire dalla quale tutti gli altri ambiti della vita venivano non solo illuminati ma addirittura ricompresi e giudicati.
Questo aspetto tanto sottolineato dal movimento sessantottino non poteva non incontrare l’aspetto comunitario che proprio il Concilio Vaticano II aveva riscoperto all’interno dei documenti Lumen Gentium e Gaudium et Spes dedicati alla Chiesa e alla sua presenza nel mondo. In essi la categoria di “Popolo di Dio” veniva presa come paradigma per descrivere la natura profonda e fondamentale della Chiesa prima di ogni altra distinzione gerarchica.
Questo dava la possibilità di ripensare, non senza problemi, a tutti i soggetti e le categorie di persone che formavano la chiesa. Il clero, i religiosi e i laici, nella prospettiva inaugurata dal Concilio, non erano più entità da organizzare a partire da una gerarchia divinamente rivelata che poneva al vertice per importanza e santità il clero e i religiosi e lasciava al fondo i laici chiamati esclusivamente ad essere degli esecutori. Per il Concilio, tutti erano chiamati ad essere soggetti attivi all’interno di quel popolo formato da coloro che intendono seguire come discepoli il Signore Gesù.
La divisione tra chi insegna e comanda e chi ascolta ed esegue non aveva più nessuna ragione d’essere. Tutti erano chiamati a concretizzare, nella propria condizione di vita, l’essere discepoli di Ge-sù. Le diversità interne a questo popolo erano pensate nell’ottica del servizio all’unità della Chiesa.
In questa prospettiva, i laici non erano dei semplici esecutori di comandi o realizzatori di progetti pensati dal clero o dalla gerarchia ecclesiastica, ma veri e propri attori all’interno della storia del popolo di Dio. Questo comportava non semplicemente una democratizzazione del potere ma un ripensamento radicale del potere ad ogni livello all’interno della Chiesa.
Nascono in questo ambito tutti i vari Consigli votati a rendere tutti più partecipi alle decisione e alle responsabilità di una comunità cristiana. Nasce anche in questo contesto il bisogno di formazione sempre più sentito per dare una consapevolezza sempre maggiore alla propria fede e alla presenza dei cristiani nel mondo.
Pur avendo fatto tanti passi in avanti, forse sarebbe necessario lasciarsi ancora provocare da queste istanze che ancor oggi mettono in discussione la progressiva riduzione della società agli interessi privati, ad una privatizzazione della fede e ad una clericalizzazione della Chiesa.